Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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Nello sposo di Maria non c’era tensione tra la vita attiva e quella contemplativa, perché entrambe erano espressione dell’amore. L’esempio della sua sposa e la presenza quotidiana di Gesù lo aiutarono a raggiungere le vette della contemplazione. Ed è per questo che i santi esortano i fedeli a prendere san Giuseppe come maestro della propria vita interiore
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«Fatemi la grazia di amare Gesù e Maria come vogliono essere amati. San Giuseppe, pregate per me. Insegnatemi a pregare». Le parole di santa Bernadette ci dicono che uno dei più grandi favori, se non il più grande, che possiamo chiedere a san Giuseppe è quello di essere il maestro della nostra vita interiore. Non si contano i santi che prima e dopo l’umile veggente di Lourdes hanno trasmesso questa verità sul Custode del Redentore. Già la grande riformatrice del Carmelo, santa Teresa d’Ávila, famosa per le sue estasi e i suoi insegnamenti sulla preghiera, spiegava così la necessità di raccomandarsi a san Giuseppe e accrescere la devozione verso di lui: «Dovrebbero amarlo specialmente le persone che attendono all’orazione, giacché non so come si possa pensare alla Regina degli angeli nel tempo in cui soffrì con Gesù bambino, senza ringraziare san Giuseppe per essere stato loro di grande aiuto. Chi non dovesse trovare un maestro che gli insegni l’orazione, prenda questo glorioso santo per guida e non sbaglierà nel cammino».
Alla luce di queste premesse è chiaro che sarebbe un errore considerare san Giuseppe solo come lavoratore, relegando la sua vocazione esclusivamente alla vita attiva. Piuttosto, il padre di Gesù ha raggiunto – in un grado talmente alto da essere secondo solo a Maria – le vette della contemplazione. Ciò è evidente, se ci fermiamo un momento a pensare alla realtà della Sacra Famiglia.
L’Incarnazione del Verbo, dunque Dio che assume la condizione umana, è la via che l’Eterno ha scelto per la santificazione degli uomini. I Vangeli descrivono alcuni degli innumerevoli frutti arrecati dalla presenza di Gesù (dall’esultanza di Giovanni Battista nel grembo materno fino alle guarigioni fisiche e spirituali) e in special modo a coloro che hanno creduto in lui. San Giuseppe, oltre alla grazia della santa compagnia di Maria, ha potuto godere della presenza di Gesù nella sua casa. Lo ha allevato, nutrito, protetto, tenuto in braccio, baciato, lo ha introdotto nella vita sociale e nei riti ebraici, sperimentando di volta in volta l’obbedienza e la gratitudine di quel Figlio divino. Scrive san Giovanni Paolo II:
Poiché l’amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull’amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l’amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull’amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell’amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore (Redemptoris Custos, 27).
La contemplazione, come insegna san Tommaso d’Aquino, riguarda essenzialmente l’intelletto ma ha il suo principio e il suo fine nell’amore. E l’esperienza della cosa amata, spiega ancora il Doctor Angelicus, «eccita l’amore. Per cui Gregorio dice che vedendo uno colui che ama, maggiormente si accende di amore verso di lui. E questa è l’ultima perfezione della vita contemplativa: che non solo la verità sia veduta, ma anche amata» (Summa Theologiae, II-II, q. 180, a.7 ad 1). Perfino i più grandi mistici hanno potuto gustare la presenza di Dio solo in modo saltuario, «quando a Lui piace, per la sua grazia santissima», come ebbe a dire san Francesco di Sales. San Giuseppe, invece, in virtù della sua missione paterna, ha avuto questo privilegio in modo continuo, beneficiandone addirittura nell’officina in cui lavorava, mentre trasmetteva il mestiere a Gesù. Il lavoro stesso, dunque, diventava occasione per servire direttamente Dio (che per Giuseppe era, con Maria, il suo prossimo più prossimo), contemplarlo e crescere nell’amore.
Tale profonda contemplazione, favorita appunto dall’assoluta unicità della Sacra Famiglia, preservava quindi san Giuseppe «dal pericolo di quella “dissociazione”, che è provocata in noi dalle occupazioni e dagli affanni della vita», come osservava padre Tarcisio Stramare. Tenendo la mente e il cuore sempre orientati a Dio e alla Sua volontà, anche nel lavoro quotidiano, lo sposo di Maria dimostra che non c’è alcuna tensione tra la vita contemplativa e la vita attiva se entrambe hanno per principio e fine l’amore. Richiamando la distinzione di sant’Agostino sulla caritas veritatis e la necessitas caritatis, papa Wojtyla spiegava che «Giuseppe ha sperimentato sia l’amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall’umanità di Cristo, sia l’esigenza dell’amore, cioè l’amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità» (RC, 27).
Ricordiamo che quell’umanità, unita alla natura divina, era stata preparata nel silenzio di Nazaret (e negli altri luoghi, da Betlemme all’Egitto, dove la Sacra Famiglia aveva vissuto), per 30 lunghi anni, in vista dell’inizio dell’attività pubblica di Gesù che sarebbe culminata nella sua Passione, Morte e Risurrezione. Se sul Calvario la Redenzione raggiunse il suo apice, non va dimenticato che già tutte le azioni della vita nascosta di Gesù, come insegna il Catechismo, furono salvifiche. E queste azioni avvennero proprio sotto la guida paterna di Giuseppe, a cui fu partecipata in maniera somma la conoscenza di quei misteri che Dio avrebbe poi dato modo di conoscere ai discepoli (cfr. Mt 13, 11-17). Come scrisse san Bernardo: «Il Signore ha trovato Giuseppe secondo il suo cuore e gli ha confidato con piena sicurezza il più misterioso e sacro segreto del suo cuore. A lui ha svelato le oscurità e i segreti della sua sapienza, accordandogli di conoscere il mistero sconosciuto a tutti i principi di questo mondo».
Per conoscere Dio, fine della contemplazione, ci si lasci allora guidare da san Giuseppe. Lui conosce certamente la Via.
di Ermes Dovico
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